1. Memoria attiva: fare Memoria
Come ideare progetti e percorsi di senso (anche attraverso l’utilizzo di diverse forme artistiche, tecnologie digitali e riutilizzo creativo del patrimonio documentale), capaci di innescare processi di memoria attiva con chiavi di lettura significative del presente?
Partirei da una premessa che deriva dall’esperienza che ho avuto per cinque anni al Polo del Novecento: abbiamo provato a lavorare sulla costruzione di dispositivi in cui la memoria servisse anche come possibilità di interpretazione e di comprensione del presente.
C’è un testo famoso, I guardiani della memoria. Non agire come quei guardiani che sono più occupati a non far cadere la memoria che a fare in modo che questa venga utilizzata, perché le cose non succedano nuovamente. La derivata di questo approccio è un po’ l’aspetto di una certa ritualizzazione delle procedure e delle pratiche. Le stesse giornate memoriali che hanno avuto negli ultimi anni una crescita enorme, da un lato sono la risposta al bisogno di costruzione di memoria, dall’altro spesso si sono rivelate delle pratiche che in termini di efficacia non hanno prodotto tantissimo, perché c’è il Giorno della memoria, il Giorno del ricordo e potremmo aggiungere tantissimi altri giorni sulle stragi, sulle vittime, ovviamente con dei momenti di ritualizzazione, di condivisione, di riflessioni significative in quel giorno, ma che poi di fatto producono un certo potenziamento della sedazione. Al Polo del ‘900 abbiamo lavorato in maniera dispiegata, articolata e molto profonda sul tema della memoria, coinvolgendo moltissime persone, ma gli effetti non sono stati dirompenti come ci attendevamo. Il rapporto tra il dispiegamento di energie di competenze e gli impatti tutto sommato è stato circoscritto, perché come spesso avviene da parte delle istituzioni culturali si rischia di predicare a chi non ne ha bisogno e di convertire chi è già convertito.
La logica dell’intervento
Il senso è capire come innescare ragionamenti profondi in persone che su quei temi hanno degli elementi di distanza, di lontananza, di divergenza, di antagonismo e di conflitto: è la logica dell’intervento. Esiste anche la retorica dei processi di memoria come automaticamente capaci di produrre effetti sostanziali, una cosa che invece non è vera, perché se fosse così vedremmo degli effetti tangibili nel vivere quotidiano. Delle cose si ottengono con logiche di attivazione di processualità, in cui le persone vengono chiamate a riflettere su elementi in cui il passato è capace di attivare delle azioni di pensiero profondo sul presente.
Un passaggio logico ed emotivo molto forte
Con i ragazzi ad esempio è quello di dire che le scelte fatte o non fatte in passato hanno avuto un impatto molto forte nel tuo presente. Quando riesci a far capire che aver preso o non una posizione, tra il ‘43 e il ’45, non riguarda solo una cosa di 80 anni fa, ma la tua vita di adesso. Perché se ti muovi dentro un sistema di regole e di diritti, se c’è la Costituzione, se tu hai la possibilità comunque di esprimere delle opinioni molto diverse, dipende anche dal fatto che qualcuno ha fatto delle scelte. Questa cosa è molto forte. Perché tu poi puoi giocare in termini di produzione di civicness: anche le tue scelte e le non tue non scelte probabilmente produrranno degli effetti in futuro. Dal mio punto di vista è un tema centrale, che ha a che fare con un processo di responsabilizzazione del presente.
Diamo un senso a questo presente
Il presente è ormai la saturazione di una dimensione del vivere in cui non c’è passato e non c’è futuro. Nell’attesa di dare giusta memoria al passato e di traguardare un auspicabile futuro, almeno diamo un senso a questo presente, che non sia appunto farli stare tutto il giorno dentro un social. L’altra cosa che ho notato che funziona è la memoria di fatti che hanno a che fare con processi di resistenza o di conflitto in persone che non hanno un percorso simile al nostro dal punto di vista della provenienza geografica. Penso a ragazzi di seconda generazione del Marocco, della Tunisi o del Ghana: da loro punto di vista quella memoria aveva una risonanza fortissima, perché dicevano: “Anche noi abbiamo avuto quella roba lì, che non chiamiamo resistenza, ma che di fatto ha voluto dire per noi la liberazione”. Era il rapporto, molto forte, con una situazione che vivevano.
Come ideare progetti e percorsi di senso
Il punto è riuscire a trovare degli elementi di risonanza e di attivazione molto forti con le persone che stai coinvolgendo. Da questo punto di vista, l’ascolto e l’individuazione dei soggetti con cui fai il processo diventano molto importanti.
Scegliendo una parola chiave
Nei ragazzi di venti, venticinque anni c’è un processo di attivazione della memoria molto forte legato alle figure di Gobetti e di Gramsci. Entrambi avevano ventidue, ventitrè anni e questo è potentissimo: non stai lavorando su una dimensione storica. Per i ventenni di oggi non stai parlando degli anni ’20. Se dici loro che quello lì a 22 anni faceva l’editore, che faceva lo scrittore, che aveva un’impresa culturale, che ci ha anche rimesso le penne in quel modo, la cosa è potentissima. Abbiamo fatto un progetto straordinario, insieme al Centro Studi Piero Gobetti, sulla memoria di Gramsci, con ragazzi che non avevano mai incontrato né Gramsci né Gobetti. Studenti dell’ultimo anno degli istituti superiori e del primo trennio dell’università hanno lavorato sul linguaggio artistico. Hanno scelto una parola chiave, per un progetto in cui la memoria è interpretazione del presente. Hanno individuato indifferenza, che è una delle parole chiave di Gramsci e interessante per Gobetti.
Il loro processo di attivazione della memoria
Sull’indifferenza hanno realizzato due giorni di festival potentissimo. Hanno chiamato dei rapper, per una battle rap sul tema dell’indifferenza. C’era un giovanissimo Ghali, non ancora famoso, street artist Cibo, che modifica le scritte naziste e fasciste e le trasforma in cibo, famosissimo in Emilia-Romagna è un super cool dei ragazzi, con quel suo modo di essere attivo e di combattere l’indifferenza. È stato un progetto legato alla musica e alla poesia. Fu il loro processo di attivazione della memoria, lontanissimo da qualsiasi dimensione memorialistica o di ricostruzione storica: rifletteva sul senso di oggi.
Mi interessa che oggi un ventenne, se deve riflettere sul concetto di indifferenza, lo applichi alla sua vita. Questo, per me e per noi, era il punto: è il motivo per cui quella è stata un’esperienza che ho trovato molto più potente delle volte in cui abbiamo chiamato fior di storici, anche giovani, che hanno fatto delle lectio magistralis. Quell’agganciare una dimensione di valore del passato, come dispositivo di senso dell’oggi, per me è il passaggio fondamentale.
2. Comunità di patrimonio: fare Comunità
Come costruire comunità che riconoscono i luoghi della memoria (materiali e immateriali) come eredità culturale, riflesso ed espressione di valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, capaci di curarli innestando innovazione sociale duratura nel tempo?
Agglutinare comunità in gioco
La parola comunità è sempre complicata. Il tema di gruppi di persone che fanno cose attorno ad un oggetto o a una sfida diventa una cosa bella e utile. Abbiamo lavorato tantissimo sul gioco, agglutinando gruppi e comunità di persone che giocassero su dei temi di natura storica, che consentissero loro di elaborare strategie individuali e collettive. Abbiamo fatto sia cose più legate all’education nelle scuole: mazzi di carte, giochi di ruolo che partono da episodi storici per giungere a ragionamenti su parole chiave e sui valori, giochi sugli anni ’70 per fanatici di storia.
Un gruppo di lavoro per un anno
Il tema del gruppo per noi è stato molto importante. Con i ragazzi, per questo percorso della memoria che vi dicevo, abbiamo costituito un gruppo di lavoro che durava un anno. C’era una call che si faceva in autunno, aperta a chiunque dai 18 ai 24 anni. Era un rapporto di fiducia e di impegno reciproco importante. Lavorando insieme e collaborando avevano questa possibilità: non solo di imparare cose, ma di restituirle sotto forma di pratica artistica o performativa.
Il linguaggio artistico performativo è la risposta a una sollecitazione
Ha funzionato molto bene il fatto che avessero a disposizione un luogo, delle ore e un micro budget per fare dei progetti. Volevo proprio che ragionassero su dei temi e che fossero molto liberi di esprimersi dal punto di vista dei linguaggi artistici e creativi. Qui c’è un riferimento alla Convenzione di Faro, alla comunità di patrimonio.
Le istituzioni culturali come piattaforme per le comunità
Oggi si discute molto. Mi è capitato molto di recente, ad esempio in convegni, di chiedere alle istituzioni culturali di agire come piattaforme per le comunità del territorio: Non fare soltanto quello che insegna il patrimonio del tuo territorio, ma essere un soggetto che apre le porte e che abilita. Alcune cose che abbiamo fatto hanno funzionato molto bene, altre un po’ meno. Ad esempio abbiamo lavorato molto con i movimenti ambientalisti, facendo in modo utilizzassero i nostri spazi.
Una domanda di flessibilità, coerenza e verità
Soprattutto con i gruppi legati al patrimonio immateriale, nella mia esperienza è più semplice, perché si riesce a aggredire meglio alcuni temi, ma questo richiede una flessibilità diversa da parte delle istituzioni culturali, con un principio di coerenza e di verità molto forte. I ragazzi di 16-17, anni a differenza di quello che succedeva anche solo 20-25 anni fa, sono molto più attenti a come ti comporti.
Il patrimonio è quasi sempre divisivo nei grandi territori
Quello che per te rappresenta un elemento di identità, per qualcun altro è un elemento invece di frattura e di rottura. È un altro grande tema il fatto che è molto difficile oggi gestire dei conflitti: non lo si fa quasi più e si dà per scontato che le comunità che addensano significati intorno ai temi della memoria siano tutte orientate dalla stessa visione. Questa cosa crea invece conflitti enormi. Pensate al Giorno del ricordo. Il tema delle Foibe per noi voleva dire, più o meno, produrre una quantità di strumenti di difesa, perché il rischio di strumentalizzazione è altissimo, perché qualunque cosa tu dica non passa, perché non passa la complessità. L’unica cosa che poi puoi fare, evidentemente, è cercare di far passare una complessità del messaggio che non è un tema di numeri, ma il fatto che ci sono tantissime scale di grigio. È molto difficile, soprattutto per le istituzioni culturali: quando parli di memoria, in un attimo la polarizzazione produce effetti indesiderati.
Mantenere un quadro di coesistenze
Quello che non bisogna fare, secondo me, è tentare di trovare una sintesi rispetto alla contraddizione o alla divergenza. Sarebbe già tanto mantenere un quadro in cui tutte queste cose coesistono anche frammentate, magari con degli spigoli, con tutta una serie di angoli che non sono smussati, ma che si tengono dentro una visione di insieme, senza per forza che qualcuno debba trovare la parola conclusiva, fare una mediazione o la media aritmetica delle posizioni.
Alessandro Bollo (1972) è consulente, formatore e divulgatore nell’ambito del management e delle politiche culturali. È stato direttore della Fondazione Polo del ‘900 di Torino, Senior Project Manager della Fabbrica del Vapore di Milano e presidente di Kalatà impresa sociale. È stato, inoltre, co-fondatore, amministratore e responsabile Ricerca e Consulenza della Fondazione Fitzcarraldo. Attualmente è presidente del Museo Officina della Scrittura e membro del Comitato di gestione del Museo Nazionale del Cinema.