Un percorso di Teatro Pubblico Pugliese - Regione Puglia

Ilda Curti è docente, formatrice e consulente su politiche comunitarie, sviluppo locale, politiche di rigenerazione urbana e integrazione, progettazione culturale.

Pubblicato il 02 Novembre 2023

1. Memoria attiva: fare Memoria

Come ideare progetti e percorsi di senso, capaci di innescare processi di memoria attiva con chiavi di lettura significative del presente?

Per rispondere devo necessariamente partire dal fatto che fare cambiamento implica rimettere in discussione il significato di memoria e il significato di comunità, perché altrimenti non si agisce cambiamento.

Esistono diverse memorie

Declinerei al plurale il tema del fare memoria. Soprattutto se parliamo di storia recente del ‘900 penso che sia giunto il momento di smetterla di ipostatizzare la memoria. Non abbiamo costruito memoria condivisa. Abbiamo costruito una memoria codificata e una memoria tutelata e celebrata. La celebrazione della memoria implica fondamentalmente un giudizio, che io condivido perché sono donna di parte. Della storia del ‘900 condivido un giudizio, ma nello stesso tempo non posso non fare i conti col fatto che esistono diverse memorie. fare memoria significa offrire uno spazio di condivisione e di conflitto, di costruzione dialogica del conflitto.

Parto dalla mia storia individuale. Io sono frutto di confini. Dei miei quattro bisnonni, due erano austro-ungarici e due erano italiani. Il 4 novembre per un pezzo della mia famiglia è una sconfitta e per l’altro una vittoria. Mia nonna è nata nel 1914 a Fiume e per lei gli italiani erano gli occupanti, perché erano arrivati nel ‘21 con D’Annunzio.

Per creare spazi di relazione

Stare sul confine significa anche rispettare le memorie, ricondividerle e creare degli spazi di relazione tra le diverse memorie, uscendo fuori dalla loro celebrazione. Sono convinta che il fare memoria significhi quindi anche utilizzare strumenti come quelli dell’arte, dell’utilizzo creativo del patrimonio. Come dite voi, significa costruire nuovi immaginari, del presente e del futuro, che non si limitano a celebrare una memoria.

2. Comunità di patrimonio: fare Comunità

Come costruire comunità che riconoscono i luoghi della memoria come eredità culturale, riflesso ed espressione di valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, capaci di curarli innestando innovazione sociale duratura nel tempo?

Fare memoria significa fare comunità

Se dobbiamo declinare le memorie in termini plurali, anche la parola comunità deve essere declinata in modo plurale. A me ha sempre fatto pensare il fatto che in Italiano le parole comunità e identità si dicono nello stesso modo, al singolare e al plurale.  La comunità, così come l’identità, declinata al singolare, definisce un dentro e un fuori, confini.  L’uso plurale disegna un altro di mondo, dove le comunità si compenetrano e i confini sono porosi, dove ci sono gli attraversamenti.

Le comunità devono lavorare sulle loro memorie diverse

In qualche modo devono provare a costruire nuovi linguaggi proiettati nel futuro.  Credo che questo sia possibile, non tanto con operazioni scolastiche, istituzionali e accademiche, ma con l’arte e con l’approccio creativo: lo strumento più significativo per riuscire a scatenare nuovi immaginari. Fare comunità partendo dalla memoria significa lavorare su nuovi immaginari di costruzione di senso e di futuro.

3. Visioni di impatto: fare Cambiamento

Cosa suggeriresti alle organizzazioni per promuovere un orientamento alla progettazione delle attività, che ponga al centro il cambiamento che si desidera generare in relazione ai Luoghi della Memoria? Cosa dovremmo considerare in una valutazione di impatto? 

Fare memoria senza porsi il problema del cambiamento significa cristallizzare le identità e le memorie di un luogo, di un territorio e di una comunità. Significa musealizzarle. Con tutto il rispetto per la musealizzazione, o le memorie, soprattutto quelle recenti, diventano uno strumento per creare relazioni, connessioni e processi inclusivi, oppure sono esercizi che non servono, che non ci danno significato. Da tutta la vita mi occupo di territori di comunità, di memorie di identità, di quelli che sono appena arrivati, di quelli che c’erano già, di quelli che c’erano da sempre e ho in mente una discussione sul velo con le ragazze musulmane di seconda generazione:

Voi giudicate perché non condividete con noi la vostra storia di donne emancipate, il vostro percorso e le vostre sofferenze. Non le sappiamo queste storie, perché le nostre madri non ce le raccontano, perché non ci appartengono. E voi semplicemente ci giudicate come non emancipate, perché non c’è racconto, non ci sono luoghi dove poter raccontare cosa è successo.  Non lo è la scuola, non lo è la famiglia, soprattutto se sei di seconda generazione e se sei abituato ad attraversare dei diversi contesti culturali, che sono quelli domestici e pubblici.  

Mi sottolineavano come i principi costituzionali dell’Articolo 3 della Costituzione di fatto noi li esibiamo molto spesso come clave, per escludere chi non appartiene alla nostra storia.

Se vogliamo parlare di cambiamento, dobbiamo farlo partendo da dei presupposti, per esempio dell’Articolo 3 della Costituzione, che è figlio di una storia del ‘900, che è stata conflittuale, che è stata la lotta antifascista, la resistenza. L’Articolo 3 è stato una conquista. Lo utilizziamo e lo celebriamo dandolo per scontato, senza che diventi sostanza.

Creare spazi di interazione e di relazione

Fare cambiamento significa lavorare sulla memoria condivisa, ricostruendo nuovi linguaggi, anche con chi non appartiene a quella storia, con chi è arrivato dopo, perché nato dopo, perché giunge da altre parti del mondo, per tante ragioni. Le memorie non sono necessariamente di tutti. Per diventare memorie di tutti è necessario creare degli spazi di interazione e di relazione.

Innestare il dubbio, ricostruire una memoria cattiva

La riflessione che ho sempre fatto stando dentro le periferie e i luoghi, come Barriera di Milano, in Piazza Foroni, ribattezzata a Piazza Cerignola perché sono tutti Cerignolani, nella mia città, profondamente legata alle diverse memorie, è che il processo di stabilizzazione di chi è arrivato in un luogo implica una cristallizzazione della memoria pittorica e pittoresca. Si guarda all’indietro la comunità perfetta che si è lasciata, fatta di relazioni, di ci volevamo tutti bene, di lasciavamo la porta aperta, di adesso arrivano questi che invece. E allora, il lavoro su cui davvero da tanti anni provo a ragionare, anche con i miei compagni di strada, operatori culturali e mondo creativo, è innestare il dubbio, aiutare anche a ricostruire una memoria cattiva. Perché c’è una memoria cattiva. Semplicemente la vuoi dimenticare, perché se sei venuta a Torino ad abitare in una casa di ringhiera di Barriera di Milano quando avevi 3 anni, è perché i tuoi genitori sono andati via dalla Basilicata, perché avevano fame e per tante ragioni. C’è una memoria cattiva, una memoria di sofferenza, una memoria di dolore, che giustamente viene anche negata, perché quello di negare la memoria cattiva e la memoria dolorosa è un processo umano. Nello stesso tempo, questo ti impedisce un processo di identificazione con chi è arrivato da poco e quindi non riesci in realtà a leggere le loro storie come figlie della tua storia. Se lavorare sulla memoria non tiene conto del fatto che le lotte per la terra di Di Vittorio sono simili a quelle dei braccianti di Rosarno o di Villa Literno, se le lotte per il diritto alla casa degli anni ’70, di chi veniva qui col treno del Sole e abitava nelle baracche non sono riconosciute come simili a quelle che ci sono oggi, per promuovere comunanza, per un nuovo senso di umanità, di vita collettiva e comunitaria diversa, penso che sia un esercizio inutile.  Dobbiamo essere capaci di riattualizzare la memoria per ricucire ferite e per farle emergere, perché ci sia un processo collettivo di cura della memoria dolorosa, perché altrimenti il rischio è quello davvero di parlare dei borghi come fa il bando Borghi del PNRR. Ecco: non dobbiamo borghizzare la memoria.

Ilda Curti è cofondatrice de Lo Stato dei Luoghi. Ha più di 20 anni di esperienza in design, sviluppo, gestione, organizzazione di strategie e progetti di sviluppo locale, politiche di rigenerazione urbana, progetti europei con una particolare attenzione all’inclusione sociale, studi sulle migrazioni, sviluppo culturale e multiculturale, contrasto alle discriminazioni. Ha svolto attività di ricerca in Italia e all’estero. È stata Assessore alla Rigenerazione Urbana e Integrazione del Comune di Torino dal 2006 al 2016. È docente di progettazione Europea all’Università di Torino ed è autrice di numerose pubblicazioni e articoli scientifici sui temi della rigenerazione urbana, dell’impatto sociale e dell’attivazione di comunità.