Un percorso di Teatro Pubblico Pugliese - Regione Puglia

Paolo Verri è docente presso l’Università Cattolica di Milano e lo IULM di Milano. Coordina il Master in Trandisciplinary Design dello IED di Milano, il progetto Ivrea 2022 capitale italiana del libro e Volterra 2022, prima città toscana della cultura. Dirige il settore culturale dei Giochi Mondiali Universitari Invernali Torino 2025.

Pubblicato il 04 Novembre 2023

1. Memoria attiva: fare Memoria

Come ideare progetti e percorsi di senso, capaci di innescare processi di memoria attiva con chiavi di lettura significative del presente?

Bisogna fare un ampio ripasso della storia

Per fare memoria dobbiamo cercare di capire come noi stessi abbiamo costruito la nostra memoria. Dobbiamo fare una riflessione sulle nostre età. Siamo una generazione molto anziana rispetto a temi simili posti 15, 25, 30 anni fa. Quando eravamo giovani alcune cose del nostro presente passato ci sembravano molto lontane, mentre erano molto vicine. Negli anni ‘70 la Seconda Guerra Mondiale era finita da poco, ma ci sembrava lontanissima. Oggi paradossalmente la sentiamo e la viviamo più vicina di altre cose che sono successe dopo e che tendiamo a mitizzare come migliori, perché eravamo giovani. I nostri genitori erano giovani e ci sembrava tutto meraviglioso. Ma quel presente in realtà non era meraviglioso: era un presente con dei contrasti molto forti. L’industrializzazione fra la seconda metà degli anni ’50 e la fine degli anni 70 ha aggredito i territori e la società in maniera devastante. Ha provocato divaricazioni sociali e politiche assolutamente dannose per la civilizzazione. Eppure, la viviamo meglio di alcuni racconti che ci venivano fatti dai nostri nonni. Situazioni che erano molto vicine, ma che sentivamo come molto lontane, perché parlavano di cose che ci sembrava impossibile che fossero accadute: la guerra, la distruzione. Sembravano veramente molto, molto lontane dallo status in cui già abitavamo. Quindi, nel fare memoria, secondo me bisogna innanzitutto fare un ampio ripasso della storia. Non abbiamo più le basi, né l’abilità sugli strumenti. Le generazioni più recenti non sanno aprire un quotidiano. È tutto mescolato. Nel digitale è necessario un forte radicamento negli strumenti del passato, che ci consentiva di pensare e di riflettere sulla memoria del ‘900 in maniera approfondita. Oggi quasi non sappiamo neanche usare la televisione, che all’epoca sembrava dovesse sostituire tutto, per cercare elementi di memorabilità.

Una memorabilità da toccare

Questa memorabilità secondo me deve essere giocata molto proprio sui nostri strumenti sensoriali, sul farci toccare le cose nei musei. Tocchiamo ancora troppo poco le cose. Non sono niente affatto convinto che sia una maggiore digitalizzazione dei beni, una maggiore distanza fisica dai beni ad approfondire la memoria delle cose. Credo che lo sia l’uso di quelle cose. Penso ai grandi strumenti di produzione di memoria, a due tra tutti: la macchina per scrivere e l’automobile, l’uno per la memoria propria della nostra interiorità, l’altro per costruire memoria attraverso il viaggio e la mobilità. Sono due strumenti di una meccanicità straordinaria, che oggi non possediamo più. È un tema molto forte di memorabilità, raggiungibile attraverso la prova diretta di strumenti appartenuti a una società di massa, presenti in massa nei nostri archivi, che pure vediamo come lontani e distanti.

Una grande operazione su di noi

Se vogliamo, anche l’approfondimento attraverso il design di come le cose sono state costruite, da chi, con quali redditi, con quali cambiamenti e contrasti sociali, di quanti pochi erano i capitali dell’azienda, quanti erano gli operai, quanti pochi erano i sindacalisti e quanti erano quelli che controllavano il lavoro industriale, secondo me è del tutto perso di vista. Bisogna fare una grande operazione, innanzitutto su di noi, su quello che abbiamo dimenticato. Come facciamo a trasmetterlo ai più giovani, ai nostri figli e prossimamente ai nostri nipoti, se non conduciamo questo tipo di indagine diretta?

2. Comunità di patrimonio: fare Comunità

Come costruire comunità che riconoscono i luoghi della memoria come eredità culturale, riflesso ed espressione di valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione, capaci di curarli innestando innovazione sociale duratura nel tempo?

Il tema delle comunità in questo momento mi sembra da focalizzare molto sui movimenti migratori, che hanno ormai più di 30 anni. Le comunità interne alle aree urbane, nelle aree periurbane e agricole sono molto stabilizzate. Non è vero che ci sono ondate nuove così numerose di fenomeni migratori. Paradossalmente si sono fermati. Ci sono dei fenomeni occasionali. I residenti ormai si sono aggregati così tanto alla tradizione nazionale, che non ne abbiamo più la percezione. Non abbiamo percezione vera delle comunità albanesi, di quelle magrebine, delle comunità di Italiani di ritorno.  

Come e se ci siamo mescolati

Il tema delle comunità in questo momento è anche una valutazione di come e se ci siamo profondamente mescolati dal 1991-92 in poi. Sono stati anni determinanti per la nostra vita sociale. Dopo la caduta del muro in Italia, dopo Tangentopoli, abbiamo completamente riformato i nostri i nostri modelli, a livello di comunità, soprattutto urbane.

C’è stato il grandissimo impatto delle pedonalizzazioni. Abbiamo pedonalizzato chilometri e chilometri quadrati di abitati, che prima erano totalmente percorribili dalle automobili, soltanto su distanze medio-lunghe.

È la questione dei vecchi e nuovi fenomeni migratori e anche l’interrogazione sul perché continuiamo soprattutto al Sud, a perdere molti giovani, che nonostante abbiano la possibilità di stare bene in queste comunità, continuano a pensare che esse non siano il meglio per loro. È un tema formidabile per l’indagine sulla memoria di comunità. Si è cominciato ad andare via all’inizio del secolo scorso e ancora ci si muove in maniera determinante.

Per sentirci più vivi

Se facessimo un’analisi approfondita, emergerebbe – e sarebbe una cosa buona per comprendere bene il presente attraverso uno studio qualificato del passato – che noi non ci spostiamo prevalentemente per stare meglio, per guadagnare di più, ma perché, come dice Gaia Vince nel suo ultimo libro, Il secolo nomade, abbiamo proprio bisogno di questo spostamento per avere una percezione migliore della nostra vita. Ci domandiamo non come vivere economicamente meglio, ma come creare delle sfide. E le sfide all’interno della comunità si creano uscendo dalla comunità o addirittura energicamente cercando di smontare e rimontare la comunità stessa.

La comunità non è un luogo pacifico o pacificato. Al contrario, è dove ci sono tantissime differenze, che si compongono attraverso il tempo. Smontare queste comunità per capire come si sono formate negli ultimi 30 anni e domandarci perché abbiamo questo bisogno di andare in nuove comunità per sentirci più e meglio vivi, mi sembra un’azione molto rilevante.

3. Visioni di impatto: fare Cambiamento

Cosa suggeriresti alle organizzazioni per promuovere un orientamento alla progettazione delle attività, che ponga al centro il cambiamento che si desidera generare in relazione ai Luoghi della Memoria? Cosa dovremmo considerare in una valutazione di impatto?

La domanda è bella complessa. Provo a dividerla in tre sottocapitoli: da una risposta più utopica che mi sta a cuore, a una visione intermedia più tecnica dell’uso proprio del digitale, per renderci capaci di interazione, valutazione e gestione di una visione, almeno di medio periodo. Poi, un auspicio finale rispetto al ruolo, in particolare, del sistema educativo.

L’accumulo non porta a nulla

In generale, rispetto alla visione che dovremmo avere della nostra memoria, mi piacerebbe tantissimo che venisse fatto un sondaggio su quanto pensiamo abbiano contato veramente i soldi nella nostra esistenza e sul tema dell’accumulo. Mi sembra che sia finalmente giunta l’ora di dire che l’accumulo non porta a nulla e che quindi possiamo veramente avere una visione molto riformista rispetto alla memoria di quello che ci è capitato. La memoria di quello che ci è capitato e la visione quello che dovrebbe capitare dovrebbero essere messe insieme dalla relazione tra tradizione e innovazione. Ma poiché sappiamo che la tradizione stessa per prima avviene attraverso un’innovazione sostanzialmente lessicale, che poi diviene iconica, l’indagine dovrebbe proprio procedere con una relazione profonda tra l’individuo, il suo essere, i suoi valori profondi, etici e quei valori che la società ha posto in essere in questo secolo, che vogliamo evidentemente analizzare.

Questi luoghi della memoria novecenteschi sono stati tutti o quasi, generati nel ‘900 per creare valore economico, mentre invece spesso nei secoli precedenti tutti questi luoghi, fisici o materiali, in realtà non erano vocati a creare valore economico, ma valore sociale, valore spirituale, condivisione. Le grandi fabbriche nascono per generare il valore economico della borghesia, che immaginava tendenze che si stanno rivelando profondamente fallimentari. Le generazioni precedenti, benché più aristocratiche, si mettevano a costruire dei luoghi, degli spazi, degli insieme decisamente più spirituali.

Il secondo elemento: la visione del digitale

Cercherei, senza essere contraddittorio rispetto a quello che ho detto rispondendo alla prima domanda, di usare meglio il digitale: di fare in modo che il digitale non sia usato periodicamente per costruire le comunità, ma che queste comunità, che riflettono sulla loro identità attraverso la memoria per costruire futuro, siano sempre e permanentemente coinvolte nell’azione produttiva del sistema sociale che abitano. Mi sembra che ci sia ormai così tanto tempo libero rispetto alle azioni che possiamo fare, che invece di spendere il nostro tempo sul cellulare o sul computer per divertirci singolarmente o collettivamente in piccoli gruppi e piccole tribù, sarebbe importante generare grandi tribù. Ci sono queste tribù. Sono tribù trasversali, alcune sono multinazionali, per temi. Questa cosa consentirebbe il fatto di mettere insieme molte persone diverse, provenienti da ambiti diversi e da nazioni diverse, sugli stessi temi su cui riflettere, dal punto di vista della memoria e della progettazione del futuro, per farci capire che le differenze fra i gruppi sono molto poche e quindi per darci una specie di soddisfazione: siamo abbastanza tutti uguali. Perché vogliamo creare queste enormi differenze, questi enormi distinguo? Prima io degli altri, meglio io degli altri. Questo fatto che uno viene prima di altri, in una specie di classifica della società…

Mi sembra che questo tema dei luoghi della memoria debba aiutarci molto a costruire, diciamo così, una sufficiente autocritica nei confronti di ciascuno di noi stessi, che ci rende anche più facile vivere di più col sorriso sulle labbra, perché dovremmo essere meno accaniti verso gli altri e comprendere di più i nostri errori.

Per una storia più diffusa e popolare

Questo può accadere solo attraverso un confronto, generato proprio sulle nostre azioni quotidiane, a livello di storia minore, che, come direbbe Jacques Le Goffe, non vuol dire una storia meno importante, ma una storia più diffusa, una storia popolare, attraverso una grande discussione permanente fra studenti, genitori e insegnanti.

La comunità non può che essere educante

Il tema dei luoghi della memoria non può che nascere da un patrimonio che si valuta, si studia, si implementa di più a scuola in maniera attiva. Investirei molto nelle scuole per generare questi contenuti contenitori. La scuola è il luogo in cui oggi non dobbiamo più studiare, perché tutto quello che è il materiale di studio è ampiamente già disponibile, abbiamo già un po’ nella testa le usuali e nozionistiche, ma possiamo lavorare su questi elementi e, altra cosa molto importante, in team, produrre analisi, valutazioni e progetti.

Abbiamo bisogno di una nuova società

Metterei in campo una visione fortemente utopica, un nuovo modello di società, a partire dallo studio del ‘900, per arrivare alle nuove opportunità del 21° secolo; cercherei di utilizzare il digitale non come infotainment, ma come strumento di connessione periodica e volontaria tra i diversi gruppi sociali e baserei tutto questo sulla forte centralità della scuola diffusa, facendo in modo che torni ad essere non soggetto di transito verso il mondo del lavoro, ma una base con cui costruire un nuovo modello di società, di cui sentiamo il bisogno. Abbiamo più bisogno di una nuova società, che di nuovi posti di lavoro. I posti di lavoro ci saranno, ma se non abbiamo una società per cui batterci, questi posti non serviranno a nulla.

Paolo Verri. Uomo di libri, nato a Torino nel 1966, è stato editore, direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino dal 1993 al 1997. In quei quattro ha fondato e diretto Umbria Libri e il Salone della Musica. Nel 1998 ha inventato, insieme a Paolo Taggi, “Per un pugno di libri”, la più longeva trasmissione televisiva di promozione della lettura.

Dopo una breve esperienza all’Associazione Italiana Editori, è stato chiamato dal Sindaco di Torino, Valentino Castellani, ad occuparsi della città in cui è nato; tra il 1998 e il 2011 ha lanciato il progetto Luci d’Artista e la riqualificazione dei Murazzi del Po, ha diretto il Piano strategico della Città “Torino Internazionale” e la Fondazione Atrium per il coinvolgimento dei cittadini nella realizzazione e promozione delle XX Olimpiadi Invernali Torino 2006, di cui è stato direttore anche dello Sponsor Village. Nel 2007 ha coordinato i contenuti culturali delle Universiadi Invernali, nonché il dossier di candidatura di Torino 2008 prima World Design Capital. Dal 2007 al 2011 è stato il direttore di Italia 150, progetto per i festeggiamenti del 150° dell’Unità d’Italia che ha portato a Torino oltre 4 milioni di visitatori.

Negli ultimi 10 anni ha lavorato a Matera, come direttore della candidatura prima e della fondazione con cui si è realizzata la Capitale Europea della Cultura Matera 2019, nonché a Milano, dove ha diretto il palinsesto dei contenuti del Padiglione Italia di Expo Milano 2015. A Genova tra il 2020 e il 2021 ha diretto il progetto The Ocean Race.

Fondatore e già presidente dell’Osvaldo Soriano Football Club, è presidente pro bono della Fondazione Cirko Vertigo, eccellenza formativa e produttiva internazionale nel settore del Nouveau Cirque. È autore di molti saggi, tra cui il recentissimo “Il paradosso urbano” (Egea Edizioni, Milano 2022).